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Campi di concentrazione

Camminare per stradine e vicoli della tua città, per quanto centrali o residenziali siano i quartieri cui essi appartengono, significa in primis essere testimoni oculari del processo con cui il fenomeno del consumo sta rimodellando le nostre città.
Le vetrine vuote dei negozi, le saracinesche chiuse ad oltranza e l'estinzione del concetto stesso di bottega e drogheria non ci raccontano solo di una crisi che si è già tuffata nella sua fase recessiva dopo anni di dolorosa stagnazione, ma anche del processo di concentrazione che l'industrializzazione sta ponendo in essere per sopravvivere a sè stessa.

Per carità, è noto come tale fase sia conosciuta da tanto tempo nella dottrina economica, così tanto da essere già stata ampiamente codificata in ogni suo aspetto. I libri, però, si limitano a parlare di tecnicismi: fusione di soggetti industriali, accorciamento della filiera produttiva, internalizzazione della produzione dei servizi accessori; di meri espedienti volti a creare meno entità più solide patrimonialmente, commercialmente e finanziariamente, in modo da poter resistere alle oscillazioni dei mercati e delle domande di acquisto.
Oggi, invece, questo processo si è spostato nelle nostre vite e non riguarda più solo nomi che finiscono per spa o srl, va invece ad estendersi anche a fruttivendoli, macellai e fotografi, tutti insieme accanitamente.

Passeggiare per la propria città, se si ha un po' di memoria (la stessa che chi i centri commerciali li riempe vorrebbe che perdessimo, così da diventare i consumatori ancora più voraci) vuol dire registrare un fenomeno di accorpamento in edifici enormi, grigi e periferici del commercio antico della porta accanto, un decentramento distributivo che sa di degrado e abbandono urbano e che rappresenta tanto una tappa obbligata dell'evoluzione economica quanto il fenomeno naturalmente opposto all'integrazione sociale.

I campi di concentrazione oggi nascono come funghi perchè devono raccogliere tutti i negozietti che in città non troveremo mai più, per sottrarli alla dimensione personale che localizza e limita il consumo, trasformandoli piuttosto in enormi e ordinati palcoscenici di celebrazione del progresso.
Tutte le merci sono uguali e tutte ugualmente accessibili perchè ogni consumatore è invitato a questa festa bulimica, ogni compratore può tornare utile.
Dall'elettronica all'abbigliamento, dall'ortofrutticolo alla pizzeria, ogni esercizio commerciale posizionato com'era in mezzo a tabaccai, scuole ed edicole non risultava abbastanza credibile in termini di esclusività. La ricollocazione dà la possibilità al marketing di giocare sulla leva della validazione sociale dei prodotti: non bastano più i soldi per potersi permettere certi articoli, devi anche trovare tempo, parcheggio, assistenza e offerte.

Gli squali dei campi di concentrazione oggi stanno imparando dalla religione. Hanno capito che parlare di status symbol è classista e quindi dannoso per le vendite. Il nuovo orizzonte si chiama culto, aderire si chiama comprare, possedere si chiama appartenere e la libertà, invece, si chiama ancora scegliere, nel senso che entrambe non significano più un cazzo